ROBERT WILSON by wilson

ROBERT WILSON by wilson

autore:wilson [wilson]
La lingua: eng
Format: epub
pubblicato: 2008-06-11T15:27:03+00:00


Userà metodi diversi dai miei e vedremo se otterrà soddisfazione o no. In quanto al giudice Calderón, lo ritengo di mente aperta, a proposito della principale indagata ha un atteggiamento più realistico che ossessivo.»

«Crede che quello di Ramírez lo sia?»

«La signora Jiménez è proprio il genere di donna che l'Inspector Ramírez disprezza. Credo che rappresenti per lui un cambiamento nell'ordine delle cose, un cambiamento che l'ispettore non è ancora pronto ad accettare.»

Lobo annuì e tornò ai documenti.

«Delle persone di questo elenco, con chi potrebbe parlare in privato?»

domandò.

«Con Ramón Salgado, ma è fuori città fino alla fine della settimana.

L'ho cercato, dopo averlo incontrato al funerale. Mi aveva offerto qualche informazione interessante su Raúl Jiménez.»

«Che genere di informazione?»

«Su quanto sia poco degno di fiducia il loro mondo esclusivo.»

«Qualche ragione per dovergli credere?» domandò Lobo. «Per essere su questo elenco, quanto meno dev'essere stato un amico di Raúl Jiménez.»

«Sì, ho qualche dubbio su di lui.»

«E quanto costerebbero queste informazioni?»

«Vuole entrare nello studio di mio padre», rispose Falcón. A un tratto ricordò una conversazione avuta con Consuelo Jiménez. «Si conoscono, Salgado e la signora Jiménez», disse. «L'indagata è stata reticente sul loro rapporto; asserisce di averlo conosciuto a una serata da mio padre, ma forse è una conoscenza che risale a tempi più remoti. La signora Jiménez lavorava nel mondo dell'arte a Madrid e Salgado frequentava anche gli ambienti della capitale.»

«Credo che lei debba parlare con Salgado, ma di persona», disse Lobo.

«E questi documenti devono rimanere tra noi... mi capisce?»

Lobo guardò Falcón negli occhi, poi fece scivolare le carte nel suo cassetto. Falcón ritenne di essere stato congedato.

«Non avevo idea che il suo incarico avrebbe avuto una dimensione politica», commentò Lobo mentre Falcón gli girava le spalle. «Le forze sono a nostro svantaggio per ora, ma noi siamo più intelligenti. Però dobbiamo restare nei limiti dell'etica. Spero che il suo accordo con Salgado sia come mi ha detto.»

Falcón andrò dritto in bagno e mandò giù un Orfidal, raccogliendo un po'

d'acqua nel cavo della mano.

La sorella della Gómez, Gloria, sembrava un po' maggiore di età, ma non aveva nulla della sicurezza di Eloisa. Seduta sul sedile accanto al gui-datore mentre l'auto si dirigeva attraverso il traffico all'Instituto Anatómico Forense, se ne stava appoggiata alla portiera, le braccia conserte. Il viso aguzzo, volpino non dimostrava la minima inclinazione alle chiacchiere futili. Una donna chiusa, guardinga, sola in un mondo dove non ci si poteva fidare di nessuno.

«Era a conoscenza di ciò che sua sorella faceva per vivere?» domandò Falcón.

«Sì.»

«Ne parlava con lei?»

Gloria interpretò male le sue parole. «Abbiamo fatto lo stesso lavoro...

per un po'», disse. «Finché sono rimasta incinta.»

«Intendevo dire più recentemente», chiarì Falcón. «Lei sapeva che cosa stesse succedendo nella vita di sua sorella?»

Silenzio. Un'occhiata in tralice gli rivelò che la donna non lo riteneva degno di fiducia. Ricominciò da capo.

«La persona che ha ucciso Eloisa ha assassinato anche uno dei suoi clienti. È

possibile che uccida di nuovo. Noi sappiamo che Eloisa lo conosceva, con lei si faceva passare per uno scrittore, erano diventati amici e forse anche qualcosa di più. Credo che Eloisa avesse cominciato a vederlo come un modo per lasciare quella vita.»

«È stato proprio così», affermò la donna seccamente, riducendo Falcón al silenzio, tanto che essa ritenne di dover soggiungere: «Anche l'AIDS te la fa lasciare, quella vita».

«Ha detto che si chiamava...»

«Sergio», concluse Gloria.

«Le parlava di Sergio?»

«Le avevo detto di lasciarlo perdere. Le avevo detto che si illudeva e che non avrebbe dovuto fidarsi di lui.»

«Perché?»

«Perché le stava dando speranza e la speranza ti fa vedere le cose in mo-do diverso, cominci a credere che esistano delle possibilità, cominci a trascurare certe cose, a commettere errori.»

«Aveva ragione.»

«Questo succede a fidarsi degli altri», continuò lei; e sollevandosi i capelli sulla nuca, mostrò il segno lustro di una cicatrice da bruciatura. «Mi arriva fino in fondo alla schiena.»

«Così lei ha abbandonato il mestiere?»

«Avevo la scelta tra continuare quel lavoro e la povertà. Ho preferito la povertà al dolore e alla morte.»

«Ma non è bastato a convincere Eloisa?»

«Non le era mai capitato niente», spiegò la sorella. «Sì, una volta l'avevano minacciata con un coltello, certo. E qualcuno le aveva puntato una pistola alla tempia, l'avevano anche schiaffeggiata, ma non aveva cicatrici.

Non appena ha cominciato a parlarmi di Sergio, però, io ho capito che quell'uomo aveva delle mire su di lei.» Lasciò ricadere le braccia sui fianchi, come se si sentisse totalmente sconfitta dalla vita, come se alla somma complessiva delle sue esperienze si fosse ora aggiunto il rimorso della so-pravvissuta.

«Che cosa le diceva di Sergio?» domandò Falcón, prima che la breccia che la donna aveva lasciato intravedere nella sua corazza di riservatezza scomparisse senza lasciare traccia.

«Diceva che era guapo. Sono sempre così. Diceva che era come noi.»

«Come voi?» si stupì Falcón.

«Eloisa e io, tra di noi, ci chiamavamo las forasteras», spiegò la donna.

«Le forestiere. Chiamavamo i nostri clienti los otros, gli altri... ma Eloisa diceva che lui non era così.»

«E perché sarebbe stato diverso?»

«Tutto quello che mia sorella diceva di lui, per me, faceva pensare che fosse uno di los otros. Era educato, ben vestito, aveva la macchina e un appartamento.»

«Non le ha detto che tipo di macchina e quale appartamento?»

«Quell'uomo non era uno stupido, los otros erano sempre stupidi, in questo, sì, era diverso.»

«E perché secondo sua sorella era un forastero?»

«Pensava che potesse essere uno straniero o che avesse sangue straniero nelle vene. L'aspetto era spagnolo, vestiva come uno spagnolo, parlava spagnolo.

Ma era diverso.»

«Nordafricano?»

«Eloisa non l'ha mai detto e poi a lei non piaceva quella gente, non andava mai con loro. Non sarebbe stata attratta da lui, se le fosse parso nordafricano. Forse era stato all'estero per molto tempo o aveva studiato fuori, pensava lei.»

Erano arrivati all'Instituto, deserto e silenzioso. Osservarono il cadavere dietro il vetro. In qualche modo le orbite erano state riempite. Gloria Gómez appoggiò le mani al vetro e vi premette la fronte. La pena che trasudava dal suo intimo la faceva cigolare come un mobile sottoposto a uno sforzo.

«I vostri genitori sono ancora vivi?» domandò Falcón alle sue spalle, osservando la testa dai capelli già un po' radi, la spalla scucita della giacca da poco prezzo.

La donna fece segno di no, continuando a premere la fronte contro il vetro.

«Eloisa avrebbe avuto qualche motivo per andare al cimitero di San Fernando?»

Gloria voltò le spalle alla sorella morta.

«Ci andava ogni volta che poteva», rispose. «C'è sepolta la sua bambina.»

«La sua bambina?»

«A quindici anni ha avuto una figlia. È morta a tre mesi.»

Tornarono alla Jefatura senza parlare, solo Falcón compì un ultimo tentativo per sapere se Eloisa avesse mai fatto qualche accenno all'aspetto fisico di Sergio.

«Diceva che aveva delle belle mani», fu tutto ciò che riuscì a sapere.

Era appena entrato nel suo ufficio quando squillò il telefono. Il dottor Fernando

Valera lo chiamava per dirgli che aveva risolto i suoi problemi, avendogli trovato una psicologa dell'università niente affatto interessata all'arte. Falcón non era dell'umore adatto per discutere.

«Si chiama Alicia Aguado. Ti riceverà a casa sua, Javier», gli spiegò il medico dandogli un indirizzo in calle Vidrio. «Psicologia clinica significa studi molto rigorosi accompagnati anche da... tecniche personali. È bravissima. So quanto sia difficile fare il primo passo in queste cose, ma desidero che tu la veda. Sei già alla disperazione. È importante.»

Falcón riagganciò, pensando a come tutti ormai si fossero accorti del suo stato di disperazione, di come l'avessero riconosciuto a fiuto, Sergio compreso.

Entrò Ramírez e sedette sulla sedia allungando le gambe.

«La signora Jiménez è crollata?» domandò Falcón.

Ramírez si tolse una briciola immaginaria dalla cravatta con l'aria di chi stia per confidare un'esperienza sessuale... anzi, no, un trionfo.

«Scommetto che indossa biancheria intima costosa», disse. «E il tanga d'estate.»

«Vedo che ne è stato conquistato.»

«Ho chiamato Pérez alle Mudanzas Triana e gli ho detto di prendere la cassa con l'attrezzatura cinematografica», riprese Ramírez. «Lei ha acconsentito subito, nessun problema. Ma forse può interessarle quello che ha aggiunto quando stavo per andarmene.»

Falcón lo esortò con un cenno della mano.

«Ha detto: 'Prendete quella cassa, ma solo quella. Se guarderete nelle altre scoprirete che niente del loro contenuto sarebbe ammissibile come prova'.»

Falcón lo pregò di ripetere, e Ramírez ubbidì diligentemente. La seconda volta gli fu più chiaro: l'ispettore stava mentendo e mentendo male, per giunta. Falcón dubitava fortemente che Consuelo Jiménez fosse stata così poco sottile.

«E ha datato le riprese della cassetta La Familia Jiménez?»

«Ha detto che lo avrebbe fatto, ma che è occupatissima in questo momento, bisogna rimandare a dopo la Feria.»

«Molto utile.»

«È difficile, quando si è subita una tale perdita», obiettò Ramírez.

XX

Mercoledì 18 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia Seduto a tavola, la forchetta a mezz'aria e il piatto ancora pieno, Falcón non pensava a Ramírez, ma al Comisario León, il quale non era certamente arrivato a occupare quella posizione senza possedere un notevole talento politico. Visto che era stato uno degli amministratori della società di consulenza, che cosa poteva significare il fatto che León si tenesse al corrente delle indagini attraverso Ramírez e permettesse che si facesse pressione su Consuelo Jiménez, la quale probabilmente non sapeva niente della MCA?

Falcón posò la forchetta, assalito da un'ondata di paranoia che produsse su di lui un effetto simile a nausea. Alla prima occasione lo avrebbero allontanato dall'incarico. Mentre i documenti sulla MCA restavano a dormire in un cassetto, al Comisario León andava molto bene che si continuasse a bussare alla robusta porta della signora Jiménez: se fossero saltati fuori, per lui sarebbe stata la fine.

Dopo colazione si ritrovarono per esaminare i vecchi filmini di Raúl Jiménez che Pérez aveva prelevato alle Mudanzas Triana. Il poliziotto aveva riferito che il magazzino aveva un solo ingresso e che tutti i depositi a lungo termine si trovavano in un'unica area sul retro dell'edificio. Ogni cliente aveva a disposizione uno spazio chiuso a chiave per riporvi mobili e casse sigillate da un nastro adesivo sul quale era apposta la data del deposito, in modo da rendere evidente un'eventuale apertura delle stesse. Le casse lasciate da Raúl Jiménez erano là da lungo tempo. Tutto il personale delle Mudanzas Triana aveva accesso al magazzino, ma soltanto il capodeposito aveva le chiavi degli spazi privati e nessuno poteva accedervi senza che egli fosse presente. Le chiavi si trovavano in una cassaforte nel suo ufficio. Di notte il magazzino era sorvegliato da due guardie notturne con i cani. Negli ultimi quarant'anni avevano avuto luogo quattro tentativi di scasso, ma non era stato rubato niente di importante, dato che ogni volta i ladri erano stati interrotti a metà dell'opera.

Falcón fu contento che Pérez fosse presente per sostenere l'urto dei commenti di Ramírez. Non aveva previsto di lasciarsi emozionare tanto dalle tremolanti immagini in bianco e nero della vita precedente di Raúl Jiménez, un'esistenza più felice. Mai era arrivato a commuoversi nel buio di un cinema: le storie inventate non riuscivano a coinvolgerlo, ne aveva sempre avvertito l'inganno e si

era ogni volta rifiutato di farsi prendere dalle emozioni a comando, tanto da non versare mai una sola lacrima.

Ora, però, avendo conosciuto i protagonisti in un modo tanto personale, nell'oscurità osservava con animo diverso José Manuel e Marta giocare sulla spiaggia mentre le onde tranquille si ripiegavano sulla sabbia. La moglie di Raúl, Gumersinda, entrò nell'inquadratura, si girò e tese le braccia. Sopraggiunse di corsa dietro di lei il piccolo Arturo, raggiunse le braccia che lo attendevano e la madre lo afferrò e lo sollevò in alto, al di sopra della sua testa, le gambette ciondolanti mentre il bambino, deliziato e felice, guardava il viso sorridente di lei. Arturo venne alzato verso il cielo e lo stomaco di Falcón si contrasse: ricordava quell'emozione. Dovette farsi forza per trattenere le lacrime, oppresso dal peso della tragedia che aveva fatto a pezzi quella famiglia.

Non riusciva a comprendere la sua emotività nei confronti di quella gente. Era venuto a contatto con altre famiglie devastate da omicidi o abusi sessuali, dalla droga o da episodi di violenza estrema. Perché la famiglia Jiménez aveva su di lui quell'effetto? Doveva assolutamente parlarne con qualcuno prima che la disperazione cominciasse a scaturire da lui liberamente, senza più freni. Alicia Aguado... avrebbe funzionato?

Nella stanza si riaccesero le luci. Ramírez e Pérez si girarono verso il lo-ro superiore.

«C'è una quantità di questa roba», disse Ramírez. «Che cosa stiamo facendo esattamente, Inspector Jefe?»

«Stiamo aggiungendo qualcosa al profilo del nostro assassino», rispose Falcón.

«Abbiamo di lui una certa idea per quanto riguarda il fisico grazie agli ingrandimenti delle riprese del cimitero. Ci è stato detto che è guapo e che ha belle mani. Fisicamente, perciò, sta prendendo forma. Psicologicamente: abbiamo detto che è creativo e che ama scherzare, sappiamo che si interessa di cinema e sappiamo che ha studiato a fondo la famiglia Jiménez...»

Scoprì a quel punto di non sapere come continuare. Perché mai stavano guardando quei filmini?

«La cassa dov'erano custoditi era sigillata», disse Pérez; e lo aveva già affermato nel rapporto. «Non hanno più visto la luce del giorno da quando sono stati chiusi là dentro.»

«Ma quale giorno!» riprese Falcón, parlando come un uomo che, sul punto di affogare, si aggrappasse a una canna galleggiante. «Il giorno in cui ha scacciato il ricordo di suo figlio dalla memoria.»

«Ma che cosa aggiunge questo al profilo dell'assassino?» domandò Ramírez.

«Stavo pensando alle terribili lesioni che si è inferto Jiménez», riprese Falcón.

«Si era rifiutato di vedere qualcosa alla televisione ed è stato allora che gli hanno strappato le palpebre. Perché vedesse che cosa? Che cosa può aver indotto Raúl Jiménez a infliggersi un simile tormento?»

«Se qualcuno avesse tagliato le palpebre a me...» cominciò Pérez.

«Avete visto il bambino, quel piccolino inerme», continuò Falcón, «lo avete udito strillare e gridare contento tra le braccia di sua madre... Non credete che...?»

Si interruppe. I due uomini lo stavano fissando, le facce attonite, senza capire.

«Ma, Inspector Jefe», disse Pérez, «non c'era il sonoro.»

«Lo so, Subinspector...» Ma Falcón non lo sapeva e la sua mente si svuotò di colpo, assalita dal panico, tanto che non riuscì nemmeno a ricordare il nome del suo collega. Non riuscì a pensare a un'altra parola che potesse seguire quelle che aveva appena pronunciato; era diventato ciò che temeva di più, l'attore ormai capace soltanto di recitare la parte di se stesso nella sua propria vita.

Tornò alla realtà, come se la bolla nella quale si era rinchiuso fosse scoppiata e la vita vera fosse rifluita fino a lui. Gli altri due si erano alzati e stavano smontando lo schermo. Con sorpresa Falcón si accorse che erano quasi le nove di sera.

Doveva uscire di lì, ma occorreva salvare qualcosa dal naufragio di quella situazione. Si avviò alla porta.

«Prepari un rapporto sui film, Subinspector...» il nome continuava a sfuggirgli.

«E nel farlo voglio che usi l'immaginazione, voglio che pensi all'uomo che aveva in mano la cinepresa e al suo stato mentale a quel tempo.»

«Va bene, Inspector Jefe», disse Pérez, «ma lei mi ha sempre detto di riferire i fatti senza cercare di interpretarli.»

«Faccia del suo meglio», ribatté Falcón. Uscì.

Cercò di inghiottire una pillola di Orfidal, ma gli rimase appiccicata al palato tanto che dovette andare in bagno per spruzzarsi acqua in bocca e sulla faccia accaldata. Mentre si asciugava gli parve di non riconoscere i suoi occhi nello specchio: erano gli occhi di un altro, due cose cerchiate di rosso, velate, affondate nelle orbite, che cercavano di nascondersi nel suo cranio. Stava perdendo autorevolezza, nessuno avrebbe mai potuto rispet-tare occhi così.

Uscì dalla Jefatura nell'aria fresca della sera, guidò fino a casa e si avviò a piedi verso calle Vidrio e l'abitazione della dottoressa Alicia Aguado, dove arrivò poco prima delle dieci, l'ora del suo appuntamento. Passeggiò avanti e indietro davanti all'edificio restaurato da poco, nervoso come un attore prima di un'audizione, finché non ne poté più e si decise a suonare il campanello. La dottoressa aprì e Falcón salì una rampa buia fino alla luce che usciva dalla porta.

Falcón notò che sulle pareti celeste chiaro dello studio non era appeso nulla e che nella stanza c'erano solo un divano e un sedile a due posti a forma di S.

Una stanza stretta, tutta la casa piccola e contenuta, tanto da fargli sembrare assurda la sua; gli comunicò l'impressione di una testa piacevolmente ben organizzata, laddove la sua era diventata una follia bizantina, dispersi-va, dalle mille stanze, a più piani, cavernosa, piena di balconi, barocca: era come un manicomio dove un unico internato si tenesse nascosto finché non fosse sceso il silenzio...

Alicia Aguado aveva capelli neri corti, il viso pallido senza alcuna traccia di trucco. Gli tese la mano, ma senza guardarlo in faccia. Le loro dita si toccarono e la donna gli disse: «Il dottor Valera non l'ha informata del fatto che sono ipovedente».

«Mi ha solo garantito che non si interessava di pittura.»

«Vorrei poterlo fare, ma sono in queste condizioni da quando avevo dodici anni.»

«Quali condizioni?»

«Retinite pigmentosa.»

«Non ne ho mai sentito parlare», ammise Falcón.

«Si tratta di cellule pigmentate anomale che senza una ragione definita si depositano a chiazze sulla retina», spiegò la donna. «I sintomi hanno inizio con la cecità notturna per concludersi, a grande intervallo di tempo, con la cecità completa.»

Javier, paralizzato, continuò a stringerle la mano finché lei non la liberò lentamente, indicandogli il sedile a forma di S.

«Bisogna che le spieghi alcune cose sul mio metodo», disse poi, sedendo accanto a lui ma allo stesso tempo di fronte, sul sedile appositamente realizzato. «Non posso vedere con chiarezza la sua faccia e le persone comu-nicano molto con il viso. Come forse sa, siamo 'programmati' per questo fin dalla nascita. Ciò significa che devo usare altri metodi per registrare le sue emozioni. È un metodo simile a quello dei medici cinesi che si affida-no alle pulsazioni cardiache. Così noi stiamo seduti su questo strano diva-netto, lei appoggia il braccio qui al centro, io le tengo il polso e lei parla.

La sua voce sarà incisa per mezzo di un registratore posto nel bracciolo. È

d'accordo su tutto questo?»

Falcón annuì, cullato dalla calma autorevolezza della donna, dal suo volto placido, dagli occhi verdi che non vedevano.

«Parte del mio metodo è che raramente induco a conversare, lei parla e io ascolto, questa è l'idea. Al massimo posso cercare di indirizzare i suoi pensieri o di farla ripartire nel caso arrivasse a un punto morto. Però sarò io a darle il via.»

Girò un interruttore sul lato del sedile, facendo entrare in azione il registratore, quindi posò la mano sul polso di Falcón e lo strinse, una stretta esperta ma gentile.

«Il dottor Valera mi ha riferito che lei mostra i sintomi dello stress e io sento che ora lei è ansioso. Valera ha detto che il cambiamento nel suo equilibrio emozionale è cominciato all'inizio di un'indagine su un delitto particolarmente brutale. Mi ha parlato anche di suo padre e della riluttanza che lei ha nei confronti dei terapeuti che possono conoscere le opere di Francisco Falcón.

Riesce a pensare al motivo per cui quel primo incidente... che cosa c'è?»

«Come?»

«Quella parola, 'incidente', le ha provocato una forte reazione.»

«È una parola che ho visto scritta nei diari di mio padre, ho appena cominciato a leggerli. Si riferisce a un fatto accaduto quando lui aveva sedici anni e che lo ha indotto a scappare di casa. Non rivela di che cosa si sia trattato.»

Avendo constatato l'efficacia del metodo, Falcón dovette farsi forza per reprimere il desiderio di liberarsi dalla mano che gli teneva il polso: a quanto pareva Alicia Aguado non soltanto era in sintonia con l'anatomia umana, ma sapeva captare anche le contorsioni dell'anima.

«Crede sia stato per questo che ha scritto un diario?»

«Intende dire per liberarsi dell'incidente?» rispose Falcón. «Non credo fosse quella la sua intenzione. Non avrebbe nemmeno cominciato, io penso, se un suo compagno non gli avesse regalato un diario su cui scrivere.»

«Talvolta queste persone ci vengono inviate.»

«Come a me è stato inviato questo assassino?»

Silenzio, mentre le parole venivano assorbite.

«Tutto ciò che verrà detto in questo studio è materia di segreto professionale, incluse anche le informazioni di polizia. Le registrazioni su nastro vengono chiuse in cassaforte», lo informò la donna. «Ora voglio che mi parli di come è cominciato.»

Le raccontò della faccia di Raúl Jiménez, come l'assassino avesse voluto costringere Jiménez a guardare qualcosa che l'uomo si era rifiutato di vedere.

Non le risparmiò nessun dettaglio nel descriverle la sensazione che la vittima doveva aver provato ritornando in sé dopo che le palpebre gli erano state asportate e le spiegò come questo, unito all'orrore di ciò che l'assassino gli stava mostrando, avesse indotto Raúl Jiménez a spaventose automu-tilazioni. Credeva che il proprio crollo nervoso fosse cominciato nel momento in cui aveva visto quella faccia e il terrore di un uomo costretto ad affrontare l'orrore supremo.

«Ritiene che l'assassino veda se stesso in una veste professionale?» gli

domandò la donna. «Come uno psicologo o uno psicoanalista?»

«Ah», disse Falcón, «intende dire che io lo vedo così?»

«È la verità?»

Silenzio, finché Alicia non decise di prendere le redini in mano.

«Lei ha fatto un collegamento tra questo omicidio e suo padre.»

Falcón le parlò allora delle fotografie di Tangeri che aveva trovato nello studio di Raúl Jiménez.

«Anche noi abbiamo vissuto là nello stesso periodo», spiegò, «e ho pensato di poter trovare mio padre in quelle foto.»

«Niente altro?»

Javier allargò e piegò le dita della mano, a disagio al pensiero delle informazioni che stavano scorrendo nel suo polso.

«Ho pensato anche che forse vi avrei trovato mia madre», disse. «È morta a Tangeri nel 1961, quando io avevo cinque anni.»

«L'ha trovata?» domandò Alicia dopo qualche momento.

«No. Ho trovato invece sullo sfondo di un'istantanea mio padre che baciava la donna che poi è diventata la mia seconda madre... voglio dire, la sua seconda moglie. La data sul retro era precedente alla morte di mia madre.»

«L'infedeltà non è una cosa tanto insolita.»

«Mia sorella sarebbe d'accordo con lei. Ha detto che mio padre 'non era un angelo'.»

«Questa cosa ha avuto un effetto sul modo in cui lei vede suo padre?»

Falcón si sorprese a pensare attivamente: per la prima volta nella sua vi-ta si stava realmente addentrando nelle strette vie lastricate della sua mente. Il sudore gli imperlò la fronte. L'asciugò.

«Suo padre è morto due anni fa. Gli era molto vicino?»

«Credevo di esserlo. Ero il suo preferito. Io... io... ora sono confuso.»

Le parlò del testamento, del desiderio espresso da suo padre che lo studio fosse distrutto e di come gli stesse disubbidendo a causa dei diari che aveva cominciato a leggere.

«Trova strano il desiderio di suo padre?» domandò lei. «In genere gli uomini famosi vogliono lasciare qualcosa per la posterità.»

«Una sua lettera mi avvertiva che avrebbe potuto essere un viaggio pericoloso.»

«Allora perché lo ha intrapreso?»

Falcón finì, nella sua mente, in una strada senza uscita, contro un muro bianco e piatto di panico. Il suo silenzio si fece più profondo.

«Che cosa ha detto di aver trovato così agghiacciante nella morte della vittima?»

domandò Alicia.

«Che era stato costretto a guardare...»

«Ricorda chi cercasse lei nelle foto della vittima?»

«Mia madre.»

«Perché?»

«Non lo so.»

Nel silenzio che seguì Alicia si alzò, accese un bollitore elettrico e preparò una tisana, cercò a tentoni delle tazze cinesi, versò la bevanda e tornò a stringergli il polso.

«È interessato alla fotografia?» gli domandò.

«Lo ero fino a poco tempo fa», rispose Falcón. «In casa ho perfino una camera oscura. Mi piace la fotografia in bianco e nero, mi piace sviluppare le mie immagini.»

«Che cosa cerca, che cosa vede nella fotografia?»

«Vedo una memoria.»

Le disse dei filmini che aveva visto quel pomeriggio, di come lo avessero fatto piangere.

«Andava spesso al mare da bambino?»

«Oh, sì, a Tangeri la spiaggia era proprio attaccata alla città... voglio di-re, era praticamente in città. D'estate ci andavamo tutti i pomeriggi. Mio fratello, mia sorella, mia madre, la nostra domestica e io. Qualche volta eravamo solo mia madre e io.»

«Lei e sua madre.»

«Si sta chiedendo dove fosse mio padre?»

Alicia non replicò.

«Mio padre lavorava, aveva uno studio affacciato sulla spiaggia. Ogni tanto io andavo a trovarlo nello studio. Lui ci osservava, però, questo lo so con precisione.»

«Vi osservava?»

«Aveva un binocolo. Qualche volta me lo lasciava usare, mi aiutava a individuarli... la mamma, Manuela e Paco sulla spiaggia. Diceva che quello era un segreto fra noi. 'E il mio modo di tenervi d'occhio.'»

«Tenervi d'occhio?»

«Le ho dato l'impressione che ci spiasse?» domandò Falcón. «Ma non ha senso!

Perché un uomo dovrebbe spiare la sua famiglia?»

«In quei film di famiglia che ha visto oggi si vedeva il padre?»

«No, era dietro la cinepresa.»

Gli chiese perché avesse guardato quei film e Falcón le raccontò tutta la storia di Raúl Jiménez. La donna lo ascoltò affascinata, interrompendolo solo per

cambiare il nastro.

«Ma perché ha guardato quei film?» gli domandò di nuovo alla fine del racconto.

«L'ho appena detto», rispose Falcón, «è quasi mezz'ora che...»

Si fermò per riflettere a lungo, minuti di una complessità interminabile.

«Le ho detto che per me la fotografia è memoria», disse. «Sono attirato dalle fotografie perché ho un problema di memoria. Le ho detto che andavo al mare con la mia famiglia, ma in realtà io non lo ricordo. Non lo vedo.

Non si tratta di qualcosa che è dentro di me e che posso richiamare alla memoria.

Ho dovuto inventare per riempire i vuoti. So che andavamo sulla spiaggia, ma non lo ricordo come una mia esperienza. Ha senso quello che dico?»

«Perfettamente.»

«Voglio vedere i film e le foto per stimolare la mia memoria», continuò Falcón.

«Quando ho parlato con lui della sua tragedia familiare, José Manuel Jiménez mi ha detto di avere difficoltà a ricordare la sua infanzia Io ho provato a pensare al mio primo ricordo e sono stato preso dal panico, perché sapevo che non c'era.»

«Ora può rispondere alla domanda che le ho rivolto prima? Perché legge quei diari?»

«Sì, sì!» esclamò Falcón, come se qualcosa fosse scattato in lui. «Sto disubbidendo a mio padre perché penso che i diari possano contenere i segreti della mia memoria.»

Il registratore si spense. Nella stanza si diffusero i rumori distanti della città.

Falcón aspettò che Alicia cambiasse il nastro, ma la donna non si mosse.

«Per oggi basta così», disse.

«Ma abbiamo appena cominciato!»

«Lo so. Ma non riusciremo a sciogliere i suoi nodi in una seduta. È un processo lungo. Non esistono scorciatoie.»

«Ma siamo... abbiamo cominciato a toccare i punti...»

«Proprio così. È stata una buona prima seduta», disse Alicia. «Voglio che lei rifletta un po', voglio che si interroghi sulle somiglianze tra la famiglia Jiménez e la sua, se ne vede qualcuna.»

«Entrambe le famiglie hanno lo stesso numero di figli... io ero il minore...»

«Non ne parleremo adesso.»

«Ma ho bisogno di fare progressi!»

«Li ha fatti, ma la mente umana può sopportare solo una certa quantità di realtà.

È necessario che si abitui.»

«Realtà?»

«È ciò che ci stiamo sforzando di raggiungere.»

«Ma dove siamo ora, se non nella realtà?» domandò Falcón, spaventato da quel pensiero. «Non so chi sia immerso nella realtà più di me, sono un investigatore della squadra omicidi, il mio lavoro riguarda la vita e la morte, non si può essere a contatto con la realtà più di così.»

«Ma non è la realtà di cui stiamo parlando.»

«Mi spieghi.»

«La seduta è finita.»

«Mi spieghi solo questo!»

«Farò un esempio fisico», disse Alicia.

«Quello che vuole... Devo capire.»

«Dieci anni fa ruppi un bicchiere e, mentre stavo raccogliendo i pezzi, una minuscola scheggia mi entrò nel pollice. Non riuscii a estrarla, ma il medico preferì lasciarla stare per timore di ledere un nervo. Nel corso degli anni ogni tanto il dito mi faceva un po' male, ma niente di più, e nel frattempo il corpo si difendeva da quel pezzetto di vetro, avvolgendolo in strati di pelle fino a farlo

diventare come un sassolino. Poi, un giorno, il corpo estraneo fu espulso dal corpo, il sassolino salì verso la superficie e, con l'aiuto di un po' di solfato di magnesio, uscì dal pollice.»

«E questa sarebbe la sua spiegazione sulla specie di realtà di cui stiamo parlando?»

«Le schegge di vetro possono entrare anche nella mente», ribatté Alicia e la sola idea diede la nausea a Falcón. «Talvolta queste schegge sono troppo dolorose per poterle affrontare e le cacciamo nel fondo del nostro cervello, pensando di poterle dimenticare, nascondendole sotto strati numerosi di... bugie. Così le teniamo a bada, finché un giorno accade qualcosa e, senza nessuna ragione apparente, la scheggia comincia a risalire verso la nostra parte conscia. La differenza è che non possiamo applicare il solfato di magnesio per far uscire la scheggia di vetro dall'inconscio.»

Falcón si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro nella stanza.

L'idea di quelle minuscole schegge che affioravano alla superficie lo stava spaventando, quasi gli sembrava di sentirle scricchiolare nella testa come...

come ghiaccio che si fendesse. Un'altra analogia fisica?

«Lei ha paura», disse Alicia. «È del tutto normale. Non è una cosa facile, richiede un grande coraggio. Ma la ricompensa finale è enorme, è la vera pace interiore e la rinascita a ogni possibilità.»

Falcón ridiscese le scale, allontanandosi dalla luce della porta di Alicia per uscire nella strada buia, riflettendo su quell'ultima frase: la psicoterapeuta aveva pensato, evidentemente, che la fine di ogni possibilità fosse per lui molto vicina, bisognava accettare questo fatto.

S'incamminò di fretta accanto a un gruppo di giovani diretti in centro. La maggior parte delle vie era deserta, ancora in preda ai postumi dell'estasi e degli eccessi della Semana Santa. I bar, chiusi, avrebbero riaperto soltanto l'indomani, i sevillanos tornati finalmente ai ritmi della vita normale. Si ritrovò a percorrere piazze in genere piene di gente anche durante la settimana e ora silenziose e buie, dove si udiva solo qualche voce staccata, co-me se fosse molto più tardi e gli addetti alla pulizia delle strade stessero commentando la partita di calcio della sera prima. Falcón aveva la sensazione che la sua mente fosse libera dalla

dispersione della vita quotidiana, quando non si riusciva a riflettere con calma su nulla e ogni azione genera-va la successiva.

Le voci tacquero. Javier non provava nessun desiderio di tornare a casa e decise che avrebbe continuato a camminare così ancora per qualche ora.

Cominciò a pensare alla famiglia Jiménez, confrontandola con la sua. Sì, anche la sua famiglia era stata distrutta... no, distrutta era un'esagerazione.

La morte improvvisa di sua madre non li aveva distrutti, ma danneggiati sì, come quelle sottilissime crepe sulla superficie della porcellana. Rivide il viso sconvolto del padre mentre il suo sguardo passava da Paco a Manuela a Javier; e in certo modo rivide anche se stesso, l'espressione sgomenta, la bocca spalancata, incapace di ritrovare il respiro dopo che gli era stato portato via tutto il suo mondo. Quei pensieri fecero affiorare in lui qualcosa di oscuro e di terribile, tanto che accelerò il passo sul selciato rilucente come seta.

Gli vennero alla mente giorni migliori, il ricordo gioioso di Mercedes, la donna che sarebbe diventata la seconda moglie di suo padre. Javier le aveva subito voluto bene. E ora il suo sentimento era imbrattato dalla fotografia trovata nell'appartamento di Raúl Jiménez: suo padre aveva una relazione con lei da prima della morte della moglie. Un pensiero che smosse in lui qualcosa di più terribile ancora, e Falcón si mise quasi a correre attra-versando la plaza Nueva, i tronchi e i rami degli alberi avvolti in luci magiche. Era Natale ogni giorno ormai. Fissò con aria assente le vetrine perfettamente illuminate di Max Mara, i modelli su manichini perfetti. Si augurò una vita meno complicata, dove non vi fossero quei pensieri e quelle emozioni che lo scorticavano dentro, lasciandolo esternamente quasi intatto, ma sanguinante dentro come dopo l'esplosione di una bomba.

Il sudore gli sprizzava dalla fronte mentre percorreva quasi di corsa calle Zaragoza; gli parve di avvertire un certo appetito e pensò di andare da El Cairo per una tapa di merluza rellena de gambas. Avrebbe preferito sangre encebollada, ma, in una sera come quella, per un piatto a base di sanguinaccio e cipolle sarebbe occorso uno stomaco più robusto. Passò davanti alla galleria di Ramón Salgado, con una sola scultura illuminata nella vetrina. Poco più in là, in una tipica casa sivigliana, era stato aperto un caffè con un ristorante di lusso al piano superiore, frequentato da uomini d'affari e da avvocati con le mogli e le

amiche.

Illuminata di spalle, in piedi sull'ultimo gradino della scala, c'era Inés.

Qualcuno la stava aiutando a infilarsi il cappotto. Aveva i capelli raccolti sulla nuca e si pettinava così soltanto quando voleva essere attraente e sexy, mai per occasioni di lavoro. Falcón non riuscì a vedere in faccia l'uomo che era con lei mentre i due uscivano dal locale e si avviavano lungo la strada buia, tenendosi a braccetto, in direzione della Reyes Católicos.

Nessun altro con loro, era stata una cena per due. Inés si voltò, fermandosi un istante, e Falcón si immobilizzò, poi i tacchi alti risuonarono sul selciato mentre lei affrettava il passo per raggiungere il compagno. Javier li se-guì tenendosi sull'altro lato della strada, la fame e la stanchezza scomparse ora che la mente aveva ricevuto quel nuovo combustibile.

La coppia attraversò la Reyes Católicos, passando davanti al bar La Tienda, chiuso, poi tagliò per i vicoli verso calle Bailén e girò dietro il museo sbucando sulla piazza, così che Falcón dovette tenersi a distanza finché non li ebbe visti scomparire nella calle San Vicente. Dopo qualche momento li seguì, ma la via era ormai deserta. La percorse avanti e indietro per un centinaio di metri, domandandosi se non avesse immaginato tutto quanto o se l'uomo non avesse un appartamento lì, in quella strada, a meno di un chilometro daña via in cui abitava Falcón.

Si ritirò in casa, la fame sparita, in preda allo sfinimento della sconfitta, in rotta come un intero esercito. La doccia non servì che a farlo sentire più pulito. Prese una pillola per dormire e si infilò sotto le coperte, rimanendo a fissare il soffitto che pareva arretrare all'infinito, ipnotizzato come se fosse stato al centro di una strada fra i bagliori accecanti dei fari. Si disse che doveva resistere, che era pericoloso addormentarsi al volante, non più in

grado di capire dove fosse, tanto grande era la confusione nella sua testa.

Protese una mano, aspettandosi che tutto quanto sfuggisse al controllo, che all'improvviso il suo campo visivo includesse uno sbarramento, una sponda, un albero fatale contro cui schiantarsi. Volò nel sonno come attraverso un parabrezza, dentro la notte.

ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN

12 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Un camion dell'esercito mi ha dato un passaggio da Toledo fino a Siviglia. Una vera fortuna. Il paese è in ginocchio, manca la benzina e il cibo scarseggia. Non c'è grande traffico sulle strade, a parte qualche carretto tirato da cavalli o da muli affamati.

Ho preso una stanza da un'affittacamere grassa dalle fattezze moresche e dai capelli neri lunghi fino alle reni, che di solito porta raccolti in una crocchia. Ha gli occhi neri opachi come carbone e suda in continuazione, come se fosse perennemente sull'orlo di un collasso. I seni hanno deciso di separarsi e vivono in isolamento ai due lati della gabbia toracica, la pancia è grossa come quella di un bevitore e le balla sotto la gonna a ogni passo. Ha le caviglie rosse e gonfie e ansima dolorosamente mentre si muove da una stanza all'altra. Mi piacerebbe disegnarla e dipingerla, pre-feribilmente nuda, ma la donna ha un compagno, magro come un cane randagio, e quest'uomo possiede un coltello che gli sento affilare amorosamente tutte le mattine prima di uscire. Nella camera ci sono un mobile con i cassetti che non si aprono, un letto e un quadro della Madonna appeso alla parete sopra il letto. Prendo la stanza perché ha un patio esterno che la padrona di casa usa soltanto per stendere i panni. Lascio giù i miei bagagli e vado a comprarmi materiale per dipingere e qualcosa da bere.

25 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Probabilmente è perché sono un soldato, ma ho iniziato una vita regolata, anche se ho smesso di alzarmi presto la mattina. In questa città non succede niente prima delle dieci. A quell'ora vado a piedi alla Bodega Salinas sulla calle San Jacinto a bermi un caffè e a fumare una sigaretta.

Frequento questo bar, perché il proprietario, Manolo, ha botti di buon tinto con il quale riempio i miei bottiglioni da cinque litri. Mi vende anche acquavite fatta in casa che compro a un litro alla volta. Poi torno nella mia stanza e lavoro fino alle tre del pomeriggio, unica interruzione l'ac-quaiolo. Alle tre mangio qualcosa al bar, con un bicchiere di vino, riempio la bottiglia e torno in camera mia dove dormo fino alle sei. Di nuovo lavoro fino alle dieci di sera, ceno e mi fermo da Manolo per bere con i farabutti e i poveri idioti che si ritrovano da quelle parti.

29 ottobre 1943, Triana, Siviglia

Ieri nella Bodega Salinas uno degli avventori, conosciuto solo con il soprannome di Tarzán, è venuto a sedersi al mio tavolo. Ha un ventre enorme e una faccia che sembra un mucchio di patate (Johnny Weissmuller ri-marrebbe malissimo). Gli occhi sono gonfi e semichiusi. Si siede e tutti stanno zitti e ascoltano.

«Allora», comincia, appoggiando un avambraccio cicciuto sul tavolo,

«da dove ti viene quell'aria che hai?»

«Quale aria?» domando io, senza capire.

Non c'è niente di aggressivo in Tarzán, nonostante la sua faccia bitorzo-luta.

Porta un cappello nero che non si toglie mai, ma che ogni tanto si fa scivolare sulla nuca, per stropicciarsi la fronte.

«L'aria di uno che non è di qui», risponde lui calmo, ma io mi sento per-forare da quegli occhi dalle palpebre pesanti, come se stesse prendendo la mira lungo una canna di fucile.

«Non sono sicuro di aver capito.»

«Non sei di Siviglia, Non sei andaluz.»

«Vengo dal Marocco, Tetuán e Ceuta», dico, ma pare che non gli basti.

«Tu ci guardi e prendi appunti. Hai occhi da vecchio su una faccia da giovane.»

«Sono un pittore», spiego, «prendo appunti per ricordarmi delle cose che ho visto.»

«E che cosa hai visto?»

Mi rendo conto che quella gente non mi crede, pensano che sia della Guardia Civil (gli uomini della Guardia Civil sono sempre di fuori) o peggio.

«Ho fatto il soldato», dico, evitando la parola Legión. «Sono stato in Russia con la División Azul.»

«Dove?» domanda un tipo dalle gambe storte, un picador di una certa

reputazione.

«Dubrovka, Teremets e Krasni Bor», rispondo.

«Io ero a Shevelevo», dice lui e ci stringiamo la mano.

Generale respiro di sollievo. Perché poi abbiano pensato che uno della polizia segreta potesse starsene seduto tranquillamente in un bar a prendere appunti su di loro (il gruppo di bestioni più tonti di tutta la Spagna meridionale) non riesco a immaginarlo.

15 dicembre 1943, Triana, Siviglia

Nel bar entra un giovane sui vent'anni. Si chiama Raúl, tutti lo conoscono e piace a tutti. Ha lavorato a Madrid, ma stasera non ha fatto che parlare di Tangeri, dove sì che si fanno i soldi. Gli altri ridono e gli dicono che dovrebbe parlare con El Marroquí, che è il mio soprannome. R. siede al mio tavolo e mi parla delle fortune che si fanno a Tangeri con il contrabbando. Io gli dico che di soldi ne ho abbastanza e che voglio fare il pittore. Lui insiste che con le sigarette americane si può guadagnare moltissimo, ma che si guadagna con tutto per via del blocco americano dei porti spagnoli. La sua sola preoccupazione è che l'atteggiamento degli americani verso Franco possa cambiare e che levino il blocco, ora che la División Azul è stata ritirata dalla Russia. A questo punto comincio a inte-ressarmi, perché mi rendo conto che quel ragazzo non è un idiota che pensa solo alle pesetas, ma uno che capisce come stanno le cose. Gli offro da bere; la sua compagnia è più stimolante di quella dei normali clienti della Bodega Salinas. Vengo a sapere che Tangeri è un porto franco, vale a dire che le merci possono entrare liberamente ed essere comprate e vendute senza pagare tasse. Tutto è a buon mercato, non si deve fare altro che comprare, trasportare le merci al di là dello stretto e venderle con un guadagno enorme.

Magnifico, a parte il fatto che non ha i soldi per comprare le merci e non ha una nave per trasportarle. Ma questo, secondo lui, è un particolare di nessun conto.

«Si comincia a lavorare per terzi», spiega, «si impara il mestiere e poi ci si mette in proprio.»

«Dove ci sono i quattrini», dice poi, fissandomi con i suoi occhi giovani, senza esperienza, «c'è anche il pericolo.»

Mi domando perché dica questo a me e lui afferma che se c'è pericolo c'è sempre

un grande guadagno.

A Madrid R. ha lavorato nell'edilizia, ma il costruttore è rimasto senza liquidi.

Allora R. ha trovato impiego come lustrascarpe. Solo i ricchi si fanno lustrare le scarpe, dice. Scopre che i ricchi sono tali perché sanno più cose degli altri. Li ha ascoltati e si è reso conto che parlano sempre di Tangeri, dove l'amministrazione è spagnola e corrotta e rimarrà così per parecchio tempo a venire. R. ha già programmato tutto. Devo ricordargli che non ho bisogno di soldi, ma lui non è affatto d'accordo e mi dice che

perfino gli artisti più affermati guadagnano poco. Alla fine della serata siamo tutti e due sbronzi e lui mi chiede se può dormire da me sul pavimento. È un tipo allegro e piacevole, perciò acconsento, a condizione che se ne vada prima che io cominci a lavorare.

21 dicembre 1943

Sono stato derubato. R. e io, rientrando dalla Bodega Salinas, abbiamo scoperto che qualcuno è entrato in casa passando dal patio e ha rubato tutto tranne i miei taccuini, i disegni e i dipinti. Abiti, colori e perfino la Vergine sopra il letto: volatilizzati. Quest'ultima è stata la perdita più grave, perché tutti i miei soldi erano nascosti dietro il quadro. Mi è rimasto solo quello che ho in tasca.

Informo la padrona di casa di quanto è successo, sono furioso e faccio insinuazioni sull'unica altra persona che usa il patio. Lei mi si scaglia contro e il nostro rapporto è rovinato senza rimedio. Più tardi scopriamo i vasi da fiori rotti nel patio e R. trova il punto in cui il ladro deve aver scavalcato il muro e usato i vasi, fissati alla parete, per calarsi e risalire.

22 dicembre 1943

La grassona moresca è implacabile e oggi ci è comparsa davanti insieme con quel botolo ringhioso del marito e con qualche altro bandito locale, per persuaderci a sloggiare. Dato il mio addestramento sono tentato di farli a pezzi, ma dovrei poi affrontare la Guardia Civil e la galera. R. e io ce ne andiamo. R.

ha usato tutto il suo potere di convincimento e ora ci stiamo dirigendo a sud a piedi con l'intenzione di arrivare ad Algeciras.

27 dicembre 1943

Credevo che i russi fossero in gran parte gente povera, primitiva, ma i paesi che

abbiamo attraversato ci hanno rivelato una Spagna rinchiusa in un medioevo oscuro, senza speranza, con la follia come costante compagna. Non è raro incontrare qualcuno che ulula alla luna. Mentre cercava qualcosa da mangiare R. si è imbattuto in un ragazzo incatenato a un mu-ro con un collare di ferro. Gli occhi erano tutti pupille e R. non è riuscito a scorgervi la minima traccia di umanità.

5 gennaio 1944, Algeciras

Siamo arrivati mezzi morti di fame e vestiti di stracci dopo essere stati assaliti da un branco di cani randagi più affamati di noi. Ne ho uccisi tre a mani nude prima che il branco fuggisse, lasciandoci laceri e sanguinanti.

R., che mi ha sempre mostrato rispetto, adesso sembra che abbia di me un timore reverenziale. In questo ragazzo avverto un'astuzia che mi crea un certo disagio.

7 gennaio 1944, Algeciras

La Spagna in queste condizioni non è un paese vivibile per nessuno. L'Africa è così vicina, riesco a vederla, subito al di là dello stretto. Ne sento l'odore e sono sorpreso di constatare quanto desidero tornarvi.

R. è rientrato dicendo di aver trovato un contrabandista che ci offre lavoro per due mesi sulla sua barca, con vitto e alloggio e la garanzia di la-sciarci a Tangeri con dieci dollari in tasca. Se tutto dovesse funzionare, potremmo rivedere l'accordo dopo i due mesi di prova. Gli chiedo che co-sa dovremo fare, ma questo è un particolare di cui non si cura. Gli piace l'idea di questo lavoro.

Lira fuori due sigarette e con ciò mi mette a tacere.

Mi domando come mai io mi sia messo nelle sue mani così completamente, poi ricordo tutti quegli altri ex legionari che sono tornati a Dar Riffen, incapaci di sopportare il mondo esterno.

R. mi racconta qualcosa di sé, forse per legarmi a lui. Varia in tono distaccato.

Mi dice che nel 1936 nel suo paese arrivò un camion di anarchici che ordinarono al sindaco di consegnare tutti i fascisti. Il sindaco disse che erano scappati tutti.



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